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I villaggi montani
Le case d'inverno
Ogni
paese si è sviluppato attorno a un centro vitale, a Tremenico attorno a
un pozzo, alla piazza del forno del pane a Introzzo. Queste piazze erano,
unitamente a quelle della Chiesa, il punto di incontro degli abitanti. I
bambini si trovavano nelle ore libere a giocare, gli uomini anziani vi
trascorrevano il loro tempo libero discutendo sull’andamento del tempo e
delle coltivazioni, sulle vicende del paese e raccontando storielle ai
bambini. Le stalle erano generalmente poste appena dietro il paese e
formavano un nucleo ben distinto “un paese sopra il paese”.
Il
bestiame d’inverno era tenuto in queste stalle perché era troppo
disagevole rigölai (governarle) sui monti sia per la neve, sia per
la brevità delle giornate, ma soprattutto perché emanavano calore e nelle
stalle, la sera, per risparmiare la legna che si vendeva, ghe se
truvave (ci si trovava) a laurà (a lavorare) e a parlà
(parlare). Le case furono sempre povere, costruite generalmente con sassi
di torrente legati con calce, con pietre di cava ben squadrate dal secolo
scorso; le travature d’assito in legno erano sega (segate)
d’inverno sul posto con la rasghe a man (sega a mano). Al piano
terreno era posta la c§sine (cucina), un grande locale che
generalmente occupava l’intero piano nel quale si svolgeva, durante il
periodo invernale, tutta la giornata. Poche e semplici le masserizie:
all’ ingresso un rastelet (appendiabiti), la scanzie
(mobile) a ripiani su cui erano poggiati gli utensili, appesa al
muro la peltrere (peltriera) sulla quale trovavano posto i
padell (pentole) e lo scolapasta. Una cassapanca in cui si teneva la
farina ed il pane, qualche quadreghe (sedia) o scagn (sgabello),
molto di rado e solo un cinquantennio fa comparvero i tavui
(tavoli). Il parco pranzo veniva consumato attorno al camino che era
sempre acceso e sfruttato oltre che per far da mangiare, per scaldare
l’acqua, per fà la bugada (fare il bucato), fà bui i
patati e i castegn (far bollire le patate e le castagne). La
carbunela (brace) era utilizzata de supresà (per stirare) (la
brace veniva messa in un ferro da stiro, vuoto all’interno, che propagava
così il calore necessario per la stiratura); la cenere era sparsa sui
prati come concime e veniva utilizzata anche per dare candore e profumo
alla biancheria. Sul ripiano esterno del camino era posto il vaselet
de l’asè e de l’agra (botticella dell’aceto e dell’agra) (l’agra è un
prodotto derivato dalla lavorazione del latte, di sapore acidulo,
sostituiva l’aceto abbastanza raro in questa zona); sul ripiano interno
veniva riposta la mascarpa fresca per farla essiccare. Una scala interna
di legno portava al piano superiore cui si accedeva, non di rado, anche
da un ingresso posto su una strada parallela più alta, data la ripidezza
del terreno. Le camere, generalmente piccole, con piccole e basse
finestre per evitare dispersione di calore, si presentavano alquanto
spoglie: el lecc (il letto) formato da quattro assi e da
una bisache (un materasso) imbottito di foglie di fo (faggio),
una quadreghe (sedia), una cassapanca in cui era contenuta la poca
biancheria, i pochi vestiti erano appesi ad un appendiabiti. Non mancava
mai un quadro della Madone (Madonna) appeso sopra il letto, una o
due candele benedette ol dì de la Candelora (il giorno della
Madonna della Candelora) e qualche immagine di Santi protettori. Una di
queste camere in cui passava la canna fumaria era riservata all’essicazione
delle castagne, queste venivano poi sbucciate e utilizzate con
parsimonia. Erano l’elemento fondamentale della nutrizione.
Sulla lolbie (terrazzo), posto generalmente
a mezzogiorno, con fondo e parapetto in legno, venivano poste le zucche,
il carlun (granoturco) e i prodotti dell’orto per l’essicazione.
Non esistevano servizi igienici interni, alcuni li avevano esterni,
parecchi non li possedevano affatto. “I brevi fazzoletti di terreno tra
le case, destinati a ricevere ben poco sole, venivano utilizzati
esclusivamente come aie e cortili” . Gli orti erano posti ai margini del
paese, in prossimità delle stalle. La stalla era formata da due piani, al
piano terreno ol tabial del vacch (la stalla delle mucche), sopra
ol tabial dol fen (la stalla del fieno). Un’apertura posta tra un
piano e l’altro féner permetteva di buttare il fieno nella stalla
delle mucche e il ricambio dell’aria, trasudazione dal fiatore delle
bestie. Grande fu sempre il desiderio di possedere una casa propria e di
vivere, sia pure in modo stentato, indipendenti da giogo padronale. Ne
sono a testimonianza i seguenti proverbi:
La me cà la sarà bruta e vegia ma ve minga dent nè San
Michel nè San Martin
La mia casa sarà brutta e vecchia ma non entrano né
San Michele né San Martino
A San Michele (29 settembre) e a San Martino (11 novembre) scadevano i
contratti d’affitto; significativo è il fatto per cui i contratti
scadessero in questo periodo in cui i contadini, dopo il raccolto estivo,
potevano provvedere al pagamento che avveniva sempre con prodotti della
natura, solitamente burro e formaggio. I contratti non venivano firmati,
ci si fidava sulla parola.
Disposti a qualsiasi sacrificio per avere una casa propria si soleva
dire:
L’è mej pulenta in cà sua che pietanza in cà de chi
oltri.
E’ meglio polenta in casa propria che companatico in
casa degli altri.
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