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Valvarrone

 

La difficoltosa fienagione

   

La fienagione teneva occupati tutta l’estate; iniziava la primavera con lo strusà (strigliare il terreno per sminuzzare il letame e rimuovere la terra col rastrello), dopo una settimana si mundava (ripuliva) il prato. Venivano effettuati, a seconda dei terreni tre o quattro tagli: il mageng (maggengo) veniva tagliato nel mese di maggio ed era il più abbondante; il secondo taglio era chiamato adegör e veniva effettuato tra luglio e agosto; il terzöl era il terzo taglio che si faceva in ottobre; il quarto taglio non veniva effettuato da tutti, la produzione di quartiröl (quarto taglio del fieno) era alquanto scarsa e la maggior parte delle persone riteneva più utile non tagliarlo e lasciarlo o per il pascolo o per la concimazione del terreno stesso. A segà (falciare) pensavano, in linea di massima gli uomini, per questi lavori rientravano dall’estero; era un lavoro di grande impegno e fatica, con la ranza (falce) effettuavano movimenti semicircolari con una sorprendente abilità, quando Ia falce ranzava (falciava) male veniva molada (affilata) con la preda (pietra per affilare) che veniva portata nel codèr (corno) pieno di acqua appeso alla cintura dietro il fianco. Il termen (cippo) delimitava la proprietà; non veniva mai invasa la proprietà titlerui, se per caso scappava una ranzada (falciata) sbagliata, se lasava indrè (si lasciava indietro) altrettanto fieno da falciare quanto quello preso per sbaglio. I termen (cippi) erano costituiti da un sasso rotto a metà infisso nel terreno, la corripondente metà (testimonio) era posta sotto terra. Se il confine cadeva su una roccia, su questa, con uno scalpello, si segnava una linea indicante la direzione della proprietà o una linea con a lato due punti.

Le donne pensavano invece a spand ol fen (spargere il fieno) con la forca, a rivoltarlo, ad ammucchiarlo, a fare la carga dol fen (carico del fieno) che veniva messo nella cuverta dol fen (coperta del fieno) o nel campacc (gerlo largo a maglie grosse) per il trasporto nella stalla. Importante era che non prendesse la acqua dopo la falciatura, in caso di cattivo tempo si correva subito ad ammucchiarlo, se il brutto tempo capitava di domenica si correva dal prete a chiedere il permesso per assentarsi dalla Messa.

Poichè la produzione di fieno era assai scarsa si doveva andare anche nei luoghi più impervi a falciare ol scergnon (erba olina); tale operazione comportava molti rischi, si lavorava in condizioni estremamente difficoltose, numerose erano le cadute e le morti di persone che, mettendo male un piede, perdevano l’equi librio e precipitavano.

La ricca pastorizia

Ogni famiglia possedeva almeno due o tre mucche da latte, il possesso di più mucche indicava una certa stabilità economica; i ragazzi già a dieci - dodici anni iniziavano a curare le bestie ed a mungerle. Come ho già detto nei capitoli precedenti, le mucche venivano tenute d’inverno nelle stalle del paese e portate sui  munt (monti) dalla primavera all’autunno; il latte veniva usato quasi esclusivamente per la produzione del burro e del formaggio, la carne delle mucche veniva venduta e solo in casi eccezionali, quando andaven a picch (rotolavano da un burrone), veniva consumata in famiglia. Ad ogni mucca si dava un nome che derivava generalmente dal colore del manto, si chiamavano: Bruna, Bianchina, Alba,Mora.

I pegur (le pecore) d’inverno stavano nelle stalle, durante l’estate erano lasciate libere, (si otteneva così una lana migliore) si spingevano in alto anche fino a 2300 mt. dove non arrivavano le mucche. Si tenevano quasi esclusivamente per la lana, venivano tosate due volte l’anno a marzo e a settembre; in questa valle le pecore non vennero mai munte.

Di capre ce n’erano parecchie, erano gli animali della miseria perchè si nutrivano con poco, venivano tenute nei burroni e fra i dirupi lontane da piante da frutta in quanto voraci di germogli. Il latte delle capre veniva usato assieme a quello delle mucche, si otteneva un formaggio magro saporito: il bitto; si ottenevano anche i furmagei de cabra (formaggini di capra); peculiari dell’Alpe di Agrogno sono i caprini, particolare formaggio fresco. Dopo aver cagliato il latte di capra fresco lo si faceva fermentare uno o due giorni, con una tela detta mantin si levava la quagliata senza romperla, si impastava e si metteva la pasta ottenuta nei carotìn (stampi di legno cilindrici) per dare la forma e per far scolare il siero. Venivano consumati soprattutto freschi, quelli stagionati venivano detti vecc (vecchi) ed erano squisiti. A Pasqua era tradizione scendere a valle a vendere i capretti nei paesi in cui già affluiva il turismo.

Ogni famiglia possedeva un maiale che veniva nutrito con scöc (siero.residuo della lavorazione del latte), con il liquido ottenuto dalla lavatura dei piatti, con castagne, piccole patate, giand de rugula (ghiande di rovere) ed erba. L’uccisione del ciön (maiale) costituiva una festa per la famiglia, in ogni paese vi erano una o due persone capaci di macellare; del maiale veniva utilizzato tutto, il sangue veniva raccolto e fatto essicare, tagliato a pezzetti e poi arrostito veniva consumato con la polenta. Si otteneva il salame, i luganech (le salsicce), ol salam de testa (il salame fatto con le orecchie, le cotenne e altre parti del capo), col fegato venivano preparate le mortadelle.

La lavorazione del latte

Il latte veniva usato quasi esclusivamente per la produzione di büter (burro) e furmac (formaggio); lo si dava fresco solo ai bambini ed agli ammalati; veni va messo, per l’affioramento della panna, nel casel dol lacc (casello del latte) ove passava un rivolo di acqua sul quale erano poste una o più ramine (conche di rame) ricolme di latte. Il primo prodotto che si otteneva era il burro: dalla conca col cazzin o con la cazzulete (paletta di legno la prima, di rame la seconda) veniva levata la grime (panna) che dopo uno o due giorni di riposo del latte era affiorata; questa veniva posta nel penacc (zangola), contenitore in legno con pistone in legno, ed azionato a mano per un’ora circa; si otteneva così il burro. Con cinque o sei litri di panna si otteneva circa un chilogrammo di burro. I bambini facevano a gara nel leccare el poltepedû (schiuma di panna) che si formava sul bordo della zangola quando si spingeva il pistone. Levato il burro dalla zangola lo si comprimeva per togliere il latte residuo, veniva lavato e gli si dava la forma, alcuni lo mettevano in stampi di legno riccamente decorati. Il burro veniva generalmente venduto, se doveva essere conservato lo si faceva cuocere; per accertarsi della cottura si metteva nella pentola contenente il burro un pezzetto di pane; quando il pane cominciava a friggere e diventava rosso significava che il burro era cotto. Veniva travasato in vasetti di vetro per essere conservato a lungo e il residuato nero che si formava sul fondo della pentola (béscoc) veniva mangiato con pane e polenta ed era considerato un cibo squisito.

Il latte rimasto dopo la scrematura veniva posto nel coldiröl (caldaro) di rame appeso alla scigogne (attrezzo di legno infisso al suolo con braccio che permetteva di mettere e togliere il caldaro dal fuoco senza scottarsi) e a fuoco lento si menave (rimestava) per ottenere un calore uniforme. Raggiunta la giusta temperatura (43° circa) il latte veniva poi cagliato con un pezzetto di quacc (stomaco di vitellino o capretto trattato con sale e aceto e messo ad essicare vicino al fuoco), dopo mezz’ora, a completa coagulazione,si rimestava, dopo qualche ora di riposo si era formata la quagiada (cagliata), si continuava la lavorazione sino alla formazione della mote (massa uniforme) sul fondo del caldaro; si levava col patìn (pezzo di stoffa), veniva fatto scolare il siero e messa poi nel balz (assicel1o di legno flessibile di forma tonda); i balz·venivano legati più o meno stretti con una cordicella a seconda della quantità del formaggio (52 pp. 100-102). La forma così ottenuta veniva posta sullo spressör (tavola di sasso o di pino a righe, leggermente inclinato per far sgocciolare il seron (siero) residuo; sopra la forma di formaggio veniva posto un asse con sovrapposti dei sassi per facilitare, col peso, la fuoriuscita del siero. La pasta del formaggio veniva salata e girata ogni due o tre giorni e conservata nella cantina per la stagionatura.

Il formaggio che si poteva ottenere era più o meno magro a seconda della scrematura che era stata effettuata per il burro, più o meno piccante a seconda se si era aggiunto del latte di capra o no. I formaggi che venivano prodotti erano: quello grasso ottenuto dal latte senza aver effettuato la scrematura; il bitto (formaggio grasso) ottenuto col latte di mucca scremato e latte fresco e intero di capra; quello magro che veniva reso più appetitoso con l’aggiunta di latte di capra prima di dare il quacc. Al liquido verdastro che era rimasto dopo aver levato il formaggio veniva unito ol sceral o lacc de penagia (residuo della lavorazione del burro) e latte di capra, veniva aggiunto un po’ di maistre o agra (liquido acidulo) e si otteneva la mascarpa o ricotta; questa veniva consumata fresca o, dopo averla fatta essicare sull’asse del camino, veniva grattuggiata e usata in luogo del parmigiano.

Il residuo della mascarpa era detto scöc che veniva dato ai maiali; una parte di scöc veniva posto in un recipiente agréer (contenitore di agra) e dopo non molto tempo si depositava l’agra o maistre (liquido acidulo) utilizzata per condire l’insalata in luogo dell’aceto