I munt (i monti)
Dalla primavera all’autunno gli animali venivano
portati sui monti. Verso marzo la scorta di fieno nelle stalle del paese
era ormai esaurita ed era necessario trasferire le bestie in altri
luoghi. Diversamente a quanto avveniva nelle vicine vallate, le bestie
della Valvarrone, difficilmente venivano portate sugli alpeggi. La
configurazione del terreno non era adatta alla formazione dell’alpeggio,
infatti l’unico esistente è quello di Agrogno sopra Tremenico ove si
spingevano soprattutto le pecore. Ogni famiglia aveva sui munt
(monti) due o tre cascine, ereditate di solito per via paterna, a diverse
titleitudini per sfruttare meglio tutta l’erba ed il fieno. Il terreno era
di proprietà comunale, le cascine che vi sorgevano di proprietà privata,
il Comune cedeva solo lo spazio necessario per la costruzione della
casìne (cascina), infatti ancor oggi se ne trovano parecchie senza
regresso. La casìne (cascina), sviluppata sempre su due piani, era
formata da due corpi nettamente distinti ma con un muro in comune: ol
tabial (la stalla) e ol casèl (il casello). Ol tabial dol
vacch (la stalla del le mucche) era al piano inferiore, sopra la
stalla del fieno ove veniva raccolto il fieno del prato, ol scergnon
(fieno magro e rotondo di montagna) e la föia (foglia) per la
preparazione del letto del bestiame. Nella costruzione attigua, al piano
terreno, leggermente interrato e in cui passava una vena d’acqua, vi era
ol casèl dol lacc (il casello del latte) dove venivano conservati
il latte ed il formaggio. Al piano superiore, in uno o due locali, vi era
l’abitazione vera e propria dove si provvedeva alla lavorazione del
latte. Immancabile era la scigogne (ingegnoso attrezzo di legno
che consentiva di mettere e togliere il caldaio pieno di latte dal fuoco
senza scottarsi). Sui munt (monti) venivano prodotti tutti i
formaggi che sarebbero serviti per l’intera annata: la mascarpa, il
formaggio magro, il bitto, e in qualche posto anche i caprini. Veniva
realizzato anche il burro che però veniva usato solo di rado dagli
abitanti, serviva soprattutto come merce di scambio quando si scendeva a
valle a comprare pasta o riso. I monti erano delle piccole comunità ove
si mette in comune forza, lavoro e quel poco che si aveva per aiutarsi a
sbarcà ol lunari (sbarcare il lunario) alla meno peggio. In ogni
villaggio vi erano sempre uomini abili per curare le mucche e mettere al
mondo i védej (vitelli). La sera ci si trovava sull’ajal
(spiazzo) e soprattutto il sabato sera o la vigilia dei giorni di festa
trascorrevano lunghe ore cantando.
Ora sui monti si vedono pochi animali, le cascine
sono state ristrutturate e destinate a residenza estiva, I’agricoltura e
la cura del bestiame vengono effettuate da pochi anziani e in misura
ridotta.
La Comunità Montana nel piano di sviluppo
socio‑economico si propone il rilancio e la qualificazione dell’attività
agricola, soprattutto nella Valvarrone “non finalizzata esclusivamente
alla formazione del reddito ,bensì orientata alla salvaguardia
dell’ambiente”
Le molteplici chiese
Parecchie sono le Chiese, gli Oratori, i gisö
(le cappellette) che sorgono nella Valvarrone segno della religiosità dei
suoi abitanti. Non si conoscono le date esatte di costruzione, le prime
notizie sicure risalgono al 1367 anno in cui la parrocchia di San Martino
di Sueglio con quella di Sant’Agata di Tremenico si erano staccate da
Dervio; sono tutt’ora queste le uniche due parrocchie della valle. La
prima, che sorge su un dosso presso Sueglio, edificata probabilmente con
funzione paramilitare, è in un punto equidistante dalle comunità di
Vestreno, Sueglio e Introzzo cui fa capo. E’ a forma di croce con sette
altari adorni di bellissimi quadri, ampliata negli anni 1850-1854 sotto
la cura del parroco Don Angelo Mornico di Cortenova.
Fermo Magni afferma che la parrocchia di S. Agata
fu costruita nel 1600 e dipinta da Luigi Tagliaferri di Pagnona; Zastrow
sostiene che la stessa Chiesa abbia un “nucleo sicuramente cinquecentesco
dal punto di vista architettonico”. San Carlo favorì lo sviluppo e la
trasformazione delle Chiese, la maggior parte degli edifici sacri trovò
rinnovamento ed arricchimento nel sec. XVII-XVIII. Ne sono esempi
l’Oratorio di San Carlo a Tremenico sulla cui facciata è scritto l’anno
di costruzione: 1624; la Chiesa di San Bernardino a Sueglio, in origine
cappella dedicata alla Madonna delle Nevi, che porta scolpito sul portale
l’anno 1706. “La Chiesa non manifesta tracce architettoniche di palese
antichità, non dovrebbe cioè essere anteriore al XVII secolo”. La Chiesa
di Sant’Antonio Abate a Introzzo “nonostante i molteplici rifacimenti e
gli ingrandimenti successivi ha conservato una porzione di muro databi le
al XV secolo”.
La Chiesa di San Giacomo a Vestreno (che non
mostra tracce di cospicua antichità), porta sul campanile una campana
benedetta da San Carlo a Introzzo nel 1583. San Carlo per la benedizione
dovette salire con una scala a pioli in cima al campanile perchè non si
potevano calare le campane. Questa campana, detta “campana di San Carlo”
viene suonata specialmente in occasione di tempacci minacciosi, di
incendio di altre disgrazie.
Le compagnie di emigranti favorirono con
sottoscrizioni la restaurazione e l’abbellimento delle Chiese ne è a
testimonianza la ricchissima oreficeria della quale Zastrow nell’opera
più volte citata fa un mnuzioso elenco.
Anche le campane furono oggetto di particolare
amor da parte degli abitanti “erano il suono che scandiva il tempo, così
come erano la voce della comunità che viveva le sue gioie e i suoi
dolori: ciascuno avrebbe distinto tra mille il rintocco delle sue”.
Sui bronzi venivano incise le scritte con
l’intento di tener lontane la tempesta e la grandine. Tipica era la
scritta “Per intercessionem ....... (nome del Santo patrono) .... fulgure
et tempestate libera nos Domine!”.
Il culto dei Santi
Molti i Santi invocati in questa vallata, ognuno
aveva il proprio ruolo. Sant’Antonio veniva invocato per la protezione
degli animali; il 17 gennaio, giorno del Santo, sul sagrato della Chiesa
venivano benedetti gli animali. Assieme ad altri Santi veniva invocato
per chiamare la neve “i mercant de la nef” (i mercanti della
neve).
Era così pregato dalle ragazze da marito:
Sant’Antoni glurius, damm la grazia de fà ‘l murus
Sant’Antonio glorioso dammi la grazia di trovare il
fidanzato
San Michele Arcangelo proteggeva la maturazione
delle castagne:
Sant Michel Arcangel, padrun de tuc i angei, fà marudà
i castegn
San Michele Arcangelo, padrone di tutti gli angeli, fa
maturare le castagne
San Rocco e San Sebastiano proteggevano dal
contagio, sovente venivano rappresentati inginocchiati ai due lati della
Madonna.
Sant’Anna veniva pregata dalle partorienti. Santa
Apollonia veniva invocata da chi soffriva di mal di denti; quando un
bambino estraeva un dente, la sera lo metteva sul davanzale della
finestra, nel corso della notte sarebbe passata Santa Apollonia che
avrebbe lasciato dei doni in luogo del dente.
San Martino era il patrono dei lattiero-caseari.
La figura di San Carlo aveva lasciato così grande
strascico in questa valle che il nome del Santo Arcivescovo veniva
imposto ai figli, dava il nome a cappelline e non mancavano fontanelle
con acqua fresca denominata “acqua di San Carlo”.
Un Santo particolarmente di casa in Valvarrone è
però Santo Sfirio cui è dedicata la Chiesetta sul monte Legnoncino, che,
da reperti archeologici, è da collocare anteriormente al mille.
Si narra che Sant’Ambrogio inviò sul Lago di Como
dei missionari monaci per evangelizzare il popolo e scelse sette
fratelli, ma questi non furono ascoltati dalla popolazione. Essi allora
salirono su sette vette e insieme pregavano per i peccatori e si
salutavano accendendo dei fuochi; Eusebio, Bernardino e Amato si
portarono sui monti di Musso e Gravedona, Gerolamo, Grato e Sfirio sui
monti della sponda orientale. Dopo sette anni venne una grande siccità e
mentre nei paesi tutti morivano, sulle vette fiorivano fiori e maturavano
frutti. Dopo quaranta giorni le vette si accesero di grandi luci ed i
vecchi gridarono che era un segno e bisognava pentirsi; salirono allora
sui monti e trovarono i sette eremiti morti. Capirono che erano morti per
la loro salvezza; gli abitanti chiesero pietà a Dio e mentre scendevano
cadde la pioggia.
La leggenda ha subìto variazioni nel corso dei
secoli alcuni narrano di Margherita e dei suoi fratelli. A questi Santi
si è sovrapposta la festa delle messi e del sole tanto che proteggevano
contro la siccità. S. Sfirio è raffigurato come un guerriero, ma nello
stesso tempo come un abitatore dei monti, con uno sparviero o falcone sul
braccio. C’era l’uso di recarsi alla Chiesetta di S. Sfirio tre volte
l’anno in processione,sia da Sueglio che da Tremenico e vi era tanto di
statuto di punizione per i contravventori.
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