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Il lavoro agricolo artigianale
La conformazione del terreno non permise lo
svilupparsi del latifondismo e, contrariamente a quanto avvenne in molte
parti d’Italia, la popolazione della Valvarrone non conobbe mai il giogo
padronale, solevano dire:
El padrun ghe l’ha nüma el can
Il padrone l’ha solo il cane
La conduzione agricola, attività fondamentale sino
a un cinquantennio fa, veniva svolta a livello familiare, i terreni erano
coltivati ovunque e ancora si vedono sui fianchi brulli delle montagne
piccoli appezzamenti di terreno trattenuti da muretti a secco. Purtroppo
l’abbandono della montagna per una più sicura fonte di reddito e
l’eccessivo frazionamento delle proprietà hanno favorito l’abbandono
dell’agricoltura; i terreni strappati alle foreste tornano a
inselvatichirsi e il lavoro di tante generazioni va perduto (36).
Il ritmo di lavoro era pesantissimo durante il
periodo estivo, in aprile si preparavano i campi, la pioggia in questo
mese era ritenuta assai benefica:
Avril al n’ha trente s’al piovess trent’un, al fa mal
a nigün
Aprile ha trenta giorni, se piovesse trentun giorni
non farebbe male e nessuno
Si doveva vangare, spargere il letame, seminare,
tagliare il fieno e raccogliere i prodotti; la risorsa principale era
data dal bestiame e dalle castagne.
Fiuride de macc, castegn a quacc, fiuride de giugn,
castegn a pugn
Fiorita di maggio., castagne in gran quantità, fiori
ta di giugno, castagne a pugni
Le castagne si raccoglievano in
ottobre, ognuno provvedeva a costruire una scèes (recinzione),
alta mezzo metro, con rami perchè le castagne dei sò erboi (delle
proprie piante) non andassero nella proprietà titlerui; venivano raccolte
nei cavagn (cestini), in parte venivano poste sulla gre
(grata) ad essicare e consumate con molta parsimonia, la maggior quantità
veniva però venduta ai mercati delle castagne di Como e Lecco; con due
stè (stai) di castagne si otteneva uno staio di farina; è lo staio
uno strumento di misura costituito da un recipiente di metallo con
un’impugnatura, con regolare sigillo.
Si coltivavano pure i tartifui
(le patate), el formentòn (grano saraceno) col quale si faceva il
pane, le zucche, le rape, il carlun (granoturco) così denominato
in onore a San Carlo che ne propagandò la coltura; le noci, prodotte in
quantità, venivano torchiate e con queste si produceva l’olio. Era questo
l’unico olio conosciuto in valle sino a un cinquantennio fa.
I funghi che si raccoglievano erano
gli ovuli, i porcini e i barbìn (ditòle giganti); questi ultimi
erano molto rari e crescevano fino a 30 Kg. dré ai pé (ai piedi)
di piante secolari.
La caccia era effettuata soprattutto
come bracconaggio, si cacciava solo il necessario alla sopravvivenza;
ingegnosi erano gli attrezzi, ora proibiti, per la cattura dei
selvadech (degli animali selvatici):la taiöla (tagliola), in
ferro, serviva alla cattura di animali di taglia grossa; veniva posta in
una infossatura del terreno e ricoperta con un leggero strato di terra,
come esca si mettevano le interiora di gallina o di coniglio. I archìt
(gli archetti) costruiti in legno senza nodi, solitamente in legno di
nocciolo, avevano la forma di un normale arco trattenuto da uno spago;
ad
una estremità, fra legno e spago, veniva posto un bastoncino che al
semplice tocco el saltave vie (saltava via) e l’uccello che vi si
posava restava intrappolato nello spago; l’archetto veniva posto dré
ai scees di pra (lungo i bordi dei prati). I lasc (lacci) in
fil di ferro venivano legati ad un ra mo di una pianta, questo ramo
veniva leggermente incurvato in modo di poter puntà (affrancare)
in modo leggero il laccio al terreno; quando l’animale incappava nel
laccio e con movimento cercava di liberarsi, il ramo si alzava e
l’animale restava appeso all’albero con la testa all’ingiù. Singolare è
l’olfatto degli animali, ma i cacciatori, per disperdere gli odori che
potevano avere i lacci, li scaldavano nella cenere. Prima di porre
qualsiasi trabuchet (trabocchetto) erano soliti strofinare le mani
nella terra per disperdere qualsiasi odore. Nel fiume Varrone si pescava
la trüta de fiüm (trota di fiume) con la fiocina o col sibièl
(rete con manico), attorno ai cerchi di ferro del sibièl veniva
messo uno straccio per evitare che, cozzando contro i sassi, facesse
rumore. Interessante è invece l’uso della nassa (attrezzo in legno
a forma di gerlo); era costruita con i but de castan (germogli di
castano) di un anno; era usato il castano perchè era il legno più
resistente nell’acqua. La nassa veniva usata soprattutto durante
l’inverno quando i fiumi erano poveri d’acqua; formata da tanti legnetti
tenuti assieme da fil di ferro, con l’imboccatura larga che andava sempre
più restringendosi verso il fondo, veniva posata sul letto del fiume in
modo che i pesci fossero costretti ad entrarvi; una volta entrati non
potevano più uscire perchè dei legnetti appuntiti li pungevano. Il
pescatore passava ogni tanto a vuotare le nasse; slegava la parte
inferiore di queste e trasferiva i pesci in sacchetti di tela.
I ragazzi, e non solo i ragazzi, si
divertivano nella cattura dei bosc (scalzoni), spostavano i
piöd (sassi) e con una forchetta raddrizzata a mo’ di fiocina
colpivano il pesce che se ne stava intontito; ora questi pesci sono quasi
del tutto scomparsi per l’inquinamento delle acque; si pescano ancora le
trote.
Nella
stagione primaverile scendevano a valle, a Dervio e nel lago con il
quadra (quadrato, rete quadrata retta da bacchette di ferro) o con la
canna lunga sei o sette metri
pescavano gli squisiti agün (agoni). Questa pratica viene ancora
svolta ed è bellissimo vedere una lunga fila di pescatori sui loro
cavalit (cavalletti) che pescano sino a notte inoltrata.
Nel corso della mia ricerca sulla
pesca ho trovato una notizia interessante, non molto pertinente col
lavoro che sto trattando ma che ritengo utile riportare per evidenziare
come l’ingegno e l’arguzia possano sopperire alla mancanza di materie
prime. Virginia Favaro Lanzetti da un testo dell’Ing. Giovanni Cetti
racconta come sul lago di Como venivano fatte le perle con le squamette
delle alborelle: “Si levano le squamette alle arborelle, si pongono in un
vaso pieno di acqua pulita e si strofinano le une contro le altre
ripetendo l’operazione in più acque finchè le squame non lascino più
acqua colorata. Si lascia precipitare a fondo la sostanza argentina indi
si butta con precauzione l’acqua. Il deposito rilucente che vi rimane è
un liquore argenteo detto “essenza orientale”. Si mescola questa essenza
con colla di pesce e col mezzo di un cannello si introduce in globetti di
vetro cavi, sottilissimi, dal color del girasole. Si agitino queste
piccole bolle acciò il liquido si distenda e si attacchi a tutta la
superficie interna e in questo modo si imita la più bella e fine perla
nelle sue gradazioni della sua acqua, nei suoi riflessi e nella sua
lucentezza”.
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