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Le feste connesse alla vita agricola
La festa di Sant'Antonio
La festa
di Sant’Antonio, quel del purscèl (quello del maiale), cade il 17
gennaio, la neve impedisce i lavori agricoli e favorisce le feste; è
infatti quella di Sant’Antonio una delle feste più sentite. L’abolizione
di buona parte delle feste, l’abbandono dei lavori agricoli, hanno fatto
sì che questa ricorrenza sia stata dimenticata in molti paesi, ora al
posto delle bestie si benedicono le macchine; resta ancor viva la
tradizione nei paesi in cui S. Antonio è il patrono, come ad Introzzo.
La sera precedente la festa si era soliti fare dei
grandi falò, in luoghi posti lontani dall’abitato per evitare incendi;
era tradizione che anche al gisö di Or (cappelletta di Or) a
Vestreno, al Canatori a Sueglio e a Pendegia a Introzzo si accendessero
dei falò per farli durare più a lungo si accendevano il più tardi
possibile. Si racconta che nei tempi passati, per evitare che gli
abitanti degli altri Comuni facessero il falò più grosso e più duraturo,
compagnie di ragazzi col carretto, rubavano la legna dai falò dei propri
antagonisti per poter accrescere il proprio.
Il giorno di Sant’Antonio si portavano sul sagrato
della Chiesa i cavalli ed i muli, il Prete dopo la Messa li benediva; si
diceva che la benedizione del Santo li avrebbe guardati non solo dalle
malattie ma anche dagli scherzi del folletto che li disturbava mentre
mangiavano, facendoli deperire. Un tempo il giorno di Sant’Antonio era
festivo e si usava festeggiarlo anche coi cibi, si era soliti mangiare la
pastasciutta con un soffritto di aglio; non mancavano i turtej,
(le frittelle) fatti con farina bianca, uova, zucchero e fritti
nell’olio.
Le feste patronali
Le feste cadevano sapientemente in corrispondenza
dei più o meno intensi lavori della campagna (52 p. 324). Le feste
patronali erano quelle più sentite ed erano quelle che vedevano una
maggior partecipazione di persone. Ricordo che quando andavo alle scuole
elementari, mia nonna (originaria di Tremenico) mi faceva assentare dalla
scuola in occasione della festa di Santa Agata, patrona del paese, e non
poche persone prendevano un giorno di ferie per poter partecipare a
questa festa.
I festeggiamenti iniziavano già alla sera della
vigilia con canti e balli, nelle osterie si giocava alla morra in
compagnia di un buon bicchiere di vino; si era soliti mangiare la
busèche (trippa). La festa durava sino alla mattina successiva quella
del Santo patrono ed era un giorno di spensieratezza. La mattina della
festa vi era la Messa cui partecipavano anche i Sacerdoti dei paesi
vicini, seguiva nel pomeriggio il Vespro con l’incanto dei canestri sul
sagrato della Chiesa, la sera vi era la processione con la statua del
patrono fra le vie, illuminate dalle fiaccole di carta colorata e dalle
lümm (lampade ad olio), del paese. Si costruivano per l’occasione
delle porte trionfali in legno con rivestimento in muschio, foglie di
castano e fiori; alla finestra le donne appendevano pizzi e stoffe
ricamate. A Sueglio si procedeva all’incanto della statua del la Madonna,
chi offriva di più aveva il diritto di portarla per tutto il tragitto.
La benedizione dei campi
Il giorno della Santa Croce, il tre di maggio, si
facevano le rogazioni; si trattava della benedizione dei campi per
proteggerli dal cattivo tempo e perchè dessero un buon raccolto. Si
partiva dalla Chiesa principale del paese e, in processione, cantando le
litanie dei Santi si percorreva tutto il territorio del Comune, ogni
tanto il Sacerdote si fermava e benediva la terra. Ci si fermava ad ogni
gisö (cappelletta) che per l’occasione era addobbata di ogni sorta
di fiori. La benedizione dei campi era una pratica molto sentita, vi
partecipavano tutti, anche giovani, nonostante si svolgesse dalle quattro
del mattino. Questa pratica è stata del tutto abbandonata, ne conservano
il ricordo solo gli anziani.
In periodi di siccità si saliva tutti sul
Legnoncino dove, nella Chiesetta di S. Sfirio, veniva celebrata una Messa
per chiamare l’acqua; alcuni solevano mettere sul davanzale della
finestra una statua di S. Sfirio in legno.
La festa del Natale
Il Natale vedeva tutti i componenti della famiglia
riuniti secondo il consiglio: Denadal cui tö (il giorno di Natale
coi tuoi); nel camino venivano bruciati rami di alloro e di ginepro, si
diceva lo si facesse per scaldare il Bambino e contemporaneamente si
recitavano dei “Gloria”. La sera precedente il Natale veniva strascorsa
nella stalla o nella cüsine (cucina) a specià l’ura de la Mesa
(ad aspettare l’ora della Messa) e intant se laurava (intanto si
lavorava); alla Messa di mezzanotte partecipava un gran numero di
persone, anche i ragazzi più grandicelli, che a stento riuscivano a
tenere aperti gli occhi (59).
Dopo la Messa era consuetudine consumare la
buseche (trippa) cucinata con verdura e interiora di pecora o capra
che venivano uccise per l’occasione del Natale; di trippa se ne cucinava
parecchia e veniva riscaldata per due o tre giorni consecutivi e con
sottile ironia si diceva: inco trippa, duman buseche, pustduman foiolo
(oggi trippa, domani ancora trippa, dopodomani trippa di nuovo, era
infatti il foiolo una parte delle interiora), i nomi dei piatti era
diverso ma il contenuto era identico.
Al camino veniva appesa la calza, i bambini
cercavano la più lunga perchè Gesù Bambino potesse mettere più doni ma il
contenuto era sempre assai misero: frute seche (frutta secca),
aranz (arance), qualche mandarino, qualche soldino di cioccolato
ricoperto di carta dorata, qualche piccolo torroncino; nonostante gli
scarsi doni, i bambini la vigilia del Natale erano irrequieti e a stento
si riusciva a mandarli a dormire, la mattina presto erano in piedi per
vedere quali doni fossero arrivati; si andava poi a portare gli auguri
agli abitanti del paese; soprattutto a quelli più abbienti, che in cambio
davano un frutto. I bambini ricevevano doni (sempre le stesse cose che
portava Gesù Bambino) anche dai Re Magi; la sera antecedente la
Pifanie (Epifania) mettevano sul davanzale della finestra una scarpa
piena di paglia perchè i Re Magi potessero darla ai loro cammelli, nella
scarpa in cambio lasciavano i doni.
L’ora del pranzo era molto attesa, soprattutto per
il cibo che si consumava una volta all’anno: si mangiava La buseche
(trippa), la carne, il fugascìn (pane nero farcito con castagne essicate
e lessate, noci, fichi secchi e cipolle).
Si partecipava alla Messa del mattino e al Vespro
pomeridiano, il resto della giornata veniva trascorso in compagnia dei
propri congiunti.
Il presepe veniva preparato con muschio e statuine
in legno, ultimamente in terracotta; l’albero era costituito da un ramo
di alloro con appesi dei mandarini, delle mele, delle scatolette di
torroncino, anche vuote, delle caramelle e delle noci; in ogni camera si
metteva un rametto d’alloro. Le cose oggi sono cambiate, non più statuite
di terracotta ma di plastica, il ramo di alloro è stato sostituito dalla
pianta di pino, magari artificiale; rimane però l’abitudine di mettere il
rametto d’alloro in ogni camera.
La Valvarrone fa parte della Diocesi di Milano e
la benedizione delle case avviene nella settimana precedente il Natale,
un tempo, quando il Sacerdote girava di casa in casa per la benedizione
gli si dava come offerta del burro, delle patate, une biele de nüs
(una marmitta di noci), un canestre de castegn (un cestino di
legno senza manico ricolmo di castagne).
La Quaresima e l'abbandono delle usanze relative
La Quaresima segnava la fine del carnevale,
periodo questo dei più felici dell’anno che aveva inizio dall’ultimo
giovedì di gennaio con falò e paiarö (covoni di paglia accesi) e
aveva termine la mattina stessa del primo giorno di quaresima.
Era la quaresima un periodo di meditazione, tutti
si confessavano e osservavano scrupolosamente il digiuno del venerdì
cibandosi solo la sera con castagne bianche cotte, insalata e polenta. Le
Vie Crucis e i riti religiosi quaresimali vedevano tutta la popolazione
partecipe; la settimana santa era dedicata alla semina, ma guai toccare
la terra il venerdì santo, perchè era morto il Signore, non si potevano
piantare neanche i tartifui (le patate). Il venerdì santo si
faceva morire il Signore e veniva posta in mezzo alla Chiesa una statua
grande del Cristo crocifisso; le campane venivano legate e i ragazzi
avvisavano dell’inizio delle funzioni religiose con la scigale
(attrezzo di legno rumoroso). In quel giorno nessuno lavorava e si
partecipava alle funzioni, si dava il bacio a Cristo morto, la sera si
svolgeva la solenne Via Crucis, da Vestreno o da Introzzo, a turno, e
facendo le tappe della Via Crucis, ci si recava alla Chiesa parrocchiale
di Sueglio.
Durante il periodo quaresimale si svolgevano le
quarantore; per l’occasione veniva chiamato un predicatore straordinario
che teneva prediche separatamente per gli uomini, le donne e i ragazzi;
molti coglievano la occasione della presenza di un Sacerdote estraneo per
accostarsi alla Confessione. Durante le quarantore veniva esposto il
Santissimo che era vegliato,a turno, dai confratelli, anche di notte.
L'attesa della Pasqua
La Pasqua era attesa perchè finalmente si potevano
riprendere quelle attività che la quaresima aveva bandito, si era ormai
in primavera e il ballare sui prati era desiderato, soprattutto dai
giovani, si poteva anche sposarsi, era infatti questo il periodo in cui
avveniva il maggior numero di matrimoni prima dell’inizio del grande e
faticoso lavoro della campagna.
Il sabato santo si faceva resuscitare il Signore,
venivano benedetti i ceri, le campane venivano liberate e a quel suono
tutti accorrevano a bagnarsi gli occhi e le orecchie perchè l’acqua era
considerata in quel momento benedetta; chi era impossibilitato a
partecipare alla Messa, affidava una boccetta d’acqua perchè potesse
essere benedetta in Chiesa. I ragazzi ricevevano in dono uova sode, al
pranzo di mezzogiorno, chi poteva permetterselo mangiava il capretto e
oltre al fugascìn (pane nero con frutta e cipolle) si faceva anche
una torta con uova e farina bianca. Il pomeriggio vi era la rituale
processione, singolare era quella che si svolgeva nei pressi di Sueglio,
Introzzo e Vestreno ove veniva portato ol scilostro. Era lo
scilostro un quadro della Madonna sostenuto da un bastone e abbellito da
nastri colorati che i coscritti regalavano in occasione della
coscrizione. Venivano svolti i canestri e al maggior offerente spettava
il privilegio di portare lo scilostro dal proprio paese alla Chiesa
parrocchiale di San Martino; tutte e tre le processioni convergevano in
quella Chiesa e avvicinandosi si faceva a gara a chi cantava più forte;
si affrettava anche il passo perchè il primo che arrivava era il primo ad
andarsene. Questa pratica veniva svolta anche il primo giorno dell’anno.
Alle processioni partecipavano sempre i confratelli in divisa che
portavano il baldacchino e le torce; le candele più grosse venivano
portate dai Luisit (bambini vestiti di azzurro).
Il pomeriggio del giorno successivo, detto
pasquetta, ci si recava tutti in processione alla Madonna di Bondo, i
ragazzi, appesa una corda ad un erböl (pianta di castano),
passavano l’intero pomeriggio sulla pendole (altalena).
La commemorazione dei defunti
Il culto dei defunti è sentito da tutti, il giorno
dei morti tutti ritornano al paese ove sono sepolti i loro cari per
portare un mazzo di fiori e per ricordar li con le preghiere. Durante l’utava
di mort (ottava dei morti) è ancora abitudine fà la Cumeniun
(fare la Comunione) in suffragio dei propri defunti; sino a un ventennio
fa i ufizi (gli uffici religiosi) erano celebrati alle quattro del
mattino, il giorno dei morti vi era però una Messa alle dieci, nel
pomeriggio si assisteva alla benedizione alle tombe, la sera ci si
riuniva nella cucina e si recitavano tre rosari di seguito. In questo
periodo si davano al Sacerdote uno o due gerli di castagne perchè
ricordasse i propri defunti durante i ufizi; la sera del giorno
dei morti era abitudine mettere sul tavolo delle castagne secche lessate
e del vino perchè era convinzione che durante la notte sarebbero passati
i morti a rivedere la loro casa; questi si sarebbero saziati e dissetati
sicuri che i loro familiari li ricordavano ancora; in caso contrario
sarebbero andati a tirà i pe (tirare i piedi). Durante la notte in
cui i morti facevano la processione non si poteva stare alzati, sarebbero
capitati guai a chi si fosse permesso di derogare a questa prescrizione.
Era costume consumare in questo giorno, oltre alle
castagne lessate, la cazzöla (verzata) cucinata in umido con le
verze e le costine del maiale.
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