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Valvarrone

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Legna e carbone

   

"Questa valle produce abeti e larici, è dove Ambrogio Fereri (Commissario generale degli approvvigionamenti e delle opere pubbliche sotto Lodovico il Moro) fa venire il suo legname”; così descrisse la Valvarrone Leonardo Da Vinci nel Codice Atlantico al foglio 214. Ben presto però i boschi che vide Leonardo vennero distrutti per alimentare l’industria siderurgica della Valsassina e della Valvarrone, industria fiorentissima nel XIV e XV secolo, unica sorgente di ferro per le industrie del Ducato di Milano.

La legna veniva trasportata esclusivamente a mano, non era nemmeno pensabile, fino a cinquant’anni fa, di acquistare e mantenere un cavallo, sarebbe costato troppo. Venivano costruite delle piste dette oghe , disposte trasversalmente rispetto alle strade, attraverso le quali, soprattutto se il terreno era ghiacciato, veniva ogato (fatto scivolare) il legname e mandato a valle; naturalmente, dopo tanti stitlei, la legna aveva subìto un notevole calo di peso e quando apparve la prima teleferica sembrò che una nuova era si fosse aperta. Fra una oga (canale) e l’altra, in luogo boschive (versante vago senza pascoli), sull’ajal (piazzuola) veniva fatto il pojatt (la carbonaia). veniva infissa nel terreno una pertica che sarebbe servita da guida e innalzata la casèle (il fornello) con dei pezzi di legno posti uno sopra l’altro in quadrato sino a formare un’alta costruzione vuota all’interno. Si disponeva il legname in semiverticale badando di non lasciare spazi vuoti fra un legno e l’altro sino a formare un’alta costruzione a forma di semisfera leggermente schiacciata. Si ricopriva il tutto con felci e quindi con un cosistente strato di terra nera (tere de ajal) battendola bene con la pala. Si immetteva nella casèle (fornello) della brace ardente e degli gnocchi (pezzetti di ramo di albero) e quindi il foro veniva chiuso con un scèspet (zolla di prato); veniva assistito dai carbonèèr (carbonai) giorno e notte per due o tre giorni consecutivi regolando gli sfiati, evitando che l’aria andasse a contatto con l’interno (ove si raggiungevano i 300°) e che si spegnesse il fuoco. Questo lavoro richiedeva una particolare abilità, era infatti molto difficile regolare l’aria; quando la legna era carbonizzata si raffreddava il tutto con acqua fresca di ruscello. Il carbone di legna, soprattutto quello di nocciola, era ricercato dai ramai della vicina Valsassina per le modeste calorie che sviluppava e per il basso contenuto di carbonio che non incrudiva il rame.

La tessitura di capi personali

Tutti i capi di abbigliamento erano confezionati dalle donne durante i mesi invernali; le fibre usate erano la canapa e la lana. La canapa veniva seminata in aprile e a fine luglio si sradicavano le piante femene (femmine) che venivano poste a macerare sotto l’azione della rugiada e della pioggia su ripidi pendii per evitare lo stagnamento delle acque; a fine settembre si sradicavano anche i mas’c (le piante maschili) dopo che avevano prodotto la canevosa (i semi) e venivano posti assieme alle femene a macerare. A fine ottobre venivano raccolti in covoni, legati stretti in alto e allargati a semicerchio in basso, venivano posti poco lontani l’uno dall’altro e le donne accendevano un piccolo fuoco in mezzo a questi covoni in modo che il fumo e il calore rendessero ancor più morbida la corteccia. Si batteva sotto la gramole (attrezzo a quattro gambe) in cui un coltello di legno orizzontale, entrando tra due traverse, spezzettava la corteccia e con una paletta di legno con punte di ferro si separava la fibra dalla stope (stoppa).

La tosatura delle pecore avveniva due volte all’anno, la lana non veniva mai lavata prima della filatura; dopo essere stata cardata, con la roche (rocca) e col füs (fuso) veniva filata dalle donne, che per produrre la saliva utile alla manipolazione del filato, masticavano ol biscoch (castagna secca).

Con la canapa si tesseva la tele de cà (tela greggia molto resistente; per renderla bianca si faceva bollire nel caldaro dell’acqua mista a cenere, qualche foglia di alloro dava un po’ di profumo; si versava il contenuto del caldaro nel mastello in cui c’era la stoffa, una pezza di canapa posta sopra il mastello tratteneva la cenere. Si risciacquava la stoffa che veniva stesa sui prati e bagnata più volte al giorno; è facile vedere ancora oggi, stesi sui prati, capi di biancheria insaponati ad asciugare al sole e pare che i risultati siano ottimi.

La stoppa, materiale rigido, veniva utilizzata per fare i burascèl (le coperte) che si mettevano sulle spalle quando si portava il gerlo,o per fare il refe.

Gli uomini portavano oltre al gipünin (maglia di lana lavorata ai ferri, ai müdand lungh (alle mutande lunghe), ai scalferott (alle calze grosse di lana) e ai pedü (alle scarpe di pezza), la camisa de canapa (camicia di canapa grezza), i brach de fustagn (pantaloni di fustagno), d’inverno il pesante giachè (giacca) completava l’abbigliamento, tutti portavano ol capèl (il cappello).

Le donne portavano invece sopra la camicia la stampade (vestito di mezzalana con ordito di canapa e trama di lana, sempre lo stesso sia d’estate che d’ inverno, la canapa rendeva resistente il tessuto che si sdruciva meno. La gonna veniva infuldunada (imbastita con delle fittissime pieghe) e bagnata in un segiün (mastello), veniva poi stesa all’aperto e lasciata lì a gelare in modo che le pieghe non si potessero più disfare, veniva ritirata solo quando era asciutta, poteva restare all’aperto anche più di un mese. La camicia era di canapa, perchè molto resistente, nei punti in cui non si vedeva, il davantino e le maniche erano di lino riccamente lavorato. Completavano l’abbi gliamento della donna ol scusa (il grembiule), ol panet dol col (specie di piccolo scialle che veniva avvolto attorno al collo), ol corset (gilet) e ol panet dol co (fazzoletta da testa). Le tinte venivano date, per il marrone col mallo delle noci e con le radici, per il violetto coi mirtilli.